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VICTOR VICTORIA
(VICTOR VICTORIA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 3 marzo 1983
 
di Blake Edwards, con Julie Andrews, James Garner, Robert Preston (Gran Bretagna - Stati Uniti, 1982)
 

A prima vista, VICTOR VICTORIA è una favola, una favola musicale. Cenerentola nella Parigi permissiva degli anni trenta, Victoria è una cantante d'opera che per campare cerca di darsi al cabaret. Senza gran successo tant'è che la vediamo offrire, in una delle prime scene, la propria virtù in cambio di una polpetta. Incontra Toddy (Robert Preston), omosessuale che non dispiace alle donne, cantante di cabaret anch'egli in cattive acque. Sarà suo il lampo di genio: Victoria si trasformerà in uomo diventando Victor. E assieme, sulla scena come nelle camere d'albergo (caste, considerata la situazione) diverranno coppia celebre, lui come impresario, lei come stella del varietà dal sesso ambiguo. Sennonché come nelle favole, compare il Principe Azzurro, nelle spoglie di un industriale-playboy americano (James Gardner): per amore, Victor ridiverrà Victoria, non senza essersi costruita, come professionista ma anche (è uno dei sottili paradossi del film) come donna, attraverso la sua parentesi mascolina.

Favola, quindi, come il cinema americano (ricordate SABRINA) ci ha spesso sfornato: ma anche, e soprattutto, una dissertazione di grande intelligenza, originalità e grazia sul mistero, e sulla magia, della maschera. Victoria, come la protagonista stessa riassume la propria posizione nel film, è "una donna che pretende di essere un uomo che pretende di essere una donna". Un falso travestito, in poche parole: ma la formula di Julie Andrews traduce molto meglio l'infinito gioco di specchi, di rinvii di significati, di sottintesi esistenziali e morali che il film riesce a proporre. Per esempio: è grazie al travestimento che Victoria riesce a suscitare il desiderio e la seduzione. Il milionario innamorato, ma anche gli spettatori del cabaret, e quindi quelli della sala cinematografica, passano attraverso il voyeurismo offerto da questo travestimento per desiderare e quindi far esistere, la protagonista. E ancora: è grazie al travestimento che la donna, sgraziata e sfortunata all'inizio, può finalmente permettersi di ascendere socialmente. Oppure: elemento ibrido, né uomo né donna Victoria non esiste. E pura astrazione, oggetto di desiderio ma come si desiderano le cose impossibili, i sogni: ed è l'amore a restituirla alla sua fisicità. Ma egualmente, per togliere ogni sospetto di moralismo dal quale Blake Edwards è ben lontano, questi processi positivi per Victoria diventano distruttivi per Toddy, il vero travestito. Non solo perché, una volta restituita la donna alla sua vera natura, perderà la ragione del proprio successo di manager: ma perché se la dissimulazione era utile all'ascesa sociale della donna, e negativa per raggiungere la convenzione sociale del matrimonio! per lui si tratta del contrario. Nel travestimento egli è vero: ma quando deve svelare la propria mistificazione, come nel balletto finale nel quale egli si sostituisce alla donna, eccolo decadere al ruolo sgraziato del buffone.

Basterebbero delle sequenze come quelle nelle stanze d'albergo a qualificare per sempre un cineasta: l'armonia diabolica con la quale il regista fa roteare i diversi personaggi attorno all'asse costituito dal cortile dell'albergo, con le infinite gag degli investigatori che diventano investigati, con i punti di vista, ottici e di significato, che continuamente si sovvertono in una irresistibile cascata di soluzioni. E che mai costituiscono un puro gioco formale, ma che sempre sono al servizio di una storia che come abbiamo visto, e fondata su un gioco di riflessi, di rinvii, di rovesciamenti. Cinema come evasione? Come no: ma purché sia questo tipo di evasione...


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